
La regina degli scacchi è un western | Analisi e recensione della serie TV
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“Gli scacchi sono una guerra che si combatte sulla tavola. L’obiettivo è fare scacco alla mente del tuo sfidante.” Bobby Fisher è un maestro di scacchi, americano come lo sceneggiatore Scott Frank (The Interpreter, Minority Report, Logan: The Wolverine). Entrambi sanno che lo scontro è un momento fondamentale in qualsiasi sfida, come in ogni storia che si rispetti. Il gambetto di donna (in inglese The Queen’s Gambit) è una mossa di apertura in cui il giocatore sacrifica un pedone per prendere velocemente controllo della partita. In questo caso, è anche il titolo di un romanzo di Walter Travis del 1983, adattato in una miniserie Netflix di grande successo. Nell’anno di uscita, il 2020, La regina degli scacchi è diventata la miniserie più vista sulla piattaforma.
Una storia di formazione raccontata come un western
La regina degli scacchi racconta una potente storia di formazione come un western, rappresentando ogni partita come un duello tra cowboy. La scacchiera diventa un saloon e i duellanti muovono le pedine quasi fossero pistole. Il brivido che tiene incollato lo spettatore sta nella tensione prima dell’ultima mossa letale. In questa rivisitazione di un genere classico, due sono le novità: il contesto – l’America degli anni Sessanta e Sessanta – e la protagonista, una donna.
Beth Armon (Anya Taylor-Joy) è una bambina prodigio dall’infanzia difficile. Si rende conto della sua genialità solo quando incontra il signor Shaibel (Bill Camp), custode dell’orfanotrofio in cui vive. Quando viene adottata da Alma (Marielle Heller), inizia a competere nei tornei di scacchi e diventa una campionessa. Ma ogni vittoria ha un prezzo, e la sua sfida più grande è quella contro l’apatia e la dipendenza.
Colori, montaggio, scenografia e stile
Anya Taylor-Joy (già conosciuta per Peaky Blinders, The Witch e Split) è magnetica nell’aspetto e nelle movenze. Riesce a dare un’interpretazione ambivalente e credibile di un personaggio geniale ma tormentato. Inoltre, la recitazione è accompagnata da una messa in scena dettagliata ed elegante.
Le inquadrature sono spesso divise e assemblate come quadri di una scacchiera. Il montaggio delle scene delle partite – nella serie sono più di 300 – non è mai ripetitivo, prevedibile o portato per le lunghe. La scelta cromatica spazia da un verde tenue (i muri dell’orfanotrofio, le pillole, i vestiti di Beth da bambina) a un rosa confetto (la sua nuova stanza, gli abiti di Alma, le insegne al neon durante i tornei). Tutti questi colori appaiono desaturati in contrasto con il rosso acceso dei capelli di Beth.
Un buon mix di intrattenimento ed empatia
Essendo una produzione americana, la serie cerca di trasmettere un lato meno stereotipato dei russi. Tuttavia, il crescendo verso il finale resta prevedibile. Inoltre, il percorso di Beth in un mondo maschilista è fin troppo addolcito, così come la sua lotta contro la dipendenza e l’alcol. Ma il conflitto, se ben rappresentato, può sempre essere ispirazionale e la televisione ben fatta un mix di intrattenimento ed empatia. La regina degli scacchi offre molto di entrambi.
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