
I libri per bambini non sono solo per la buona notte, ma guide per comprendere il mondo degli adulti. Da questo punto nasce HyperKids, il nuovo progetto di Hypercritic curato da Alice Avallone. Data Humanist, Insight Researcher, Cultural Strategist, Trend Forecaster e fondatrice di BUNS, Alice ha creato un universo dove la nostalgia diventa strumento di lettura del presente. Gli HyperKids – che possono avere 4 anni o 50 – sono i veri futurologi del nostro tempo. In questa intervista ci guida attraverso la sua visione dei futuri, dell’importanza della noia creativa e di come gentilezza, cura e speranza siano i sentimenti più urgenti per navigare il mondo iperconnesso di oggi.
Ciao Alice! Raccontaci chi sei e le tante cose belle che fai
Eccoci! Vediamo, sono consulente di comunicazione digitale con una passione sfrenata per il futuro e tutto ciò che implica small data, insight e trend. Nella mia vita professionale aiuto aziende e realtà culturali a tradurre visioni in strategie digitali efficaci, attraverso gli strumenti di ricerca delle scienze umane. Ma non sono solo “schermi e algoritmi”: ho un cuore da storyteller che batte forte anche fuori dagli uffici. Organizzo workshop immersivi di Future Studies per esplorare cosa desiderano davvero le nuove generazioni. E poi c’è Nora, la mia piccola esplosione di quattro anni: grazie a lei ho capito che comunicare significa soprattutto giocare e osare. Ho iniziato a collezionare libri, giochi e spunti di ogni tipo per alimentare la creatività di tutti i giorni.
Quali sono le opere che hai scoperto nella tua infanzia che ricordi con affetto e quali ti hanno più aiutato a plasmare la tua te grande?
Da piccola il mio primo grande colpo di fulmine è arrivato con Un culetto indipendente. Era la storia di questo sedere che si stufa di starsene buono buono e decide di fare il giro del mondo, lasciando Cesare Pompeo a sedersi per le sue avventure. Quel racconto così surreale mi ha insegnato che spesso la libertà arriva scoprendo quanto vale ciò che si ha sotto il sedere. Più in generale, ho adorato tutti i Battello a Vapore, con capitani pasticcioni, città sommerse e giungle di cristallo. Ogni libro era un passaporto per mondi incredibili, e io mi ci tuffavo senza pensarci due volte, imparando a creare universi pieni di dettagli dove ogni personaggio aveva una storia vera da raccontare. E poi sono arrivati loro, i Piccoli brividi, quelle storie di suspense che mi facevano sobbalzare sotto le coperte, maestre dell’arte del ritmo narrativo e del cliffhanger perfetto.
Qualcosa (che sia un libro, un film, un oggetto o un gioco, una sensazione) che oggi c’è e la tua te piccola avrebbe amato?
Da piccola le sigle dei cartoni mi annoiavano a morte. Avrei adorato avere la possibilità di saltarle. Netflix, Disney+ o Prime Video mi avrebbero catapultata subito nel vivo dell’azione: niente più attese, niente più “ancora trenta secondi”. In più, avrei adorato i profili personalizzati: un piccolo avatar tutto mio, con la mia playlist e i suggerimenti di un amico algoritmo. Avrei adorato anche la possibilità di guardare i miei programmi su tablet e smartphone, sotto il piumone o in auto. Streaming 24/7, zero interruzioni e un universo infinito di fantasia: la piccola Alice sarebbe stata la regina del binge-watching, nessun dubbio.
Qualcosa che tu hai amato, ma che oggi non c’è più?
Bim Bum Bam e Fabrizio Frizzi. Ero decisamente nazionalpopolare. E mi piaceva annoiarmi, perdermi a fissare il soffitto, inventare storie dal nulla. Una cosa che non mi è mai più successa e che vedo, con un po’ di malinconia, che non succede nemmeno più a mia figlia. Sembra retorica, ma è così: i bimbi oggi hanno troppi stimoli perché noi genitori Millennial abbiamo la paura del vuoto, come se ogni minuto senza input fosse tempo perso. E invece era proprio lì, in quel vuoto, che nascevano le idee più strambe.
Ci hai raccontato che ti occupi di Future Studies e in questo c’è una forte connessione con i bambini, che sono la proiezione dell’umanità verso il futuro. Ma che cos’è per te il futuro?
Per me il futuro è un orizzonte vivo, un intreccio di possibilità e responsabilità. Non è una data sul calendario, ma un campo semantico in cui coltiviamo semi di idee, tecnologie, valori e culture. I bambini sono il terreno fertile in cui questi semi germogliano: ogni loro sogno, gioco o domanda è un segnale di quale mondo potremmo costruire. Il futuro è anche un codice etico: scegliere oggi come usare l’intelligenza artificiale, come gestire le risorse del pianeta, come educare le nuove generazioni. È un patto tra generazioni, un “contratto di cura” che stringiamo con chi verrà dopo di noi. Che poi, per me il futuro in realtà è sempre al plurale: per me sono i futuri, che siano più o meno previsti, preferibili o assurdi.
E invece cos’è per te la nostalgia?
È una sensazione di ritorno, ma non per forza malinconica. Non è solo rimpianto del passato, anzi. È uno strumento potentissimo per leggere il presente. Un modo per capire cosa ci manca oggi, cosa ci faceva stare bene, cosa avevamo e che ora magari è cambiato, o sparito del tutto. È come un segnalibro emotivo: ti mostra quello che per te conta davvero, anche se lo hai dimenticato sotto mille scroll.
Nel mio lavoro la nostalgia è una lente con cui analizzare trend, contenuti e linguaggi. È il motivo per cui tornano certi colori, certe grafiche, certi personaggi di trent’anni fa. È un motore culturale che parla fortissimo a tutte le generazioni adulte. E non riguarda solo noi grandi. La nostalgia sta diventando un codice condiviso anche con i più piccoli, perché attraverso questa emozione passiamo riti, oggetti, storie. La usiamo come ponte: per spiegare da dove veniamo, ma anche per immaginare dove possiamo andare. Insomma, la nostalgia non è stare fermi a guardare indietro. È ricordare per ri-creare.
Veniamo aI presente: quali sono i sentimenti più importanti e urgenti oggi?
Nel caos del mondo iperconnesso, dove tutto corre veloce e tutti parlano (spesso troppo), i sentimenti chiave per me oggi sono tre: gentilezza, cura e speranza. La gentilezza non è solo dire “grazie” o tenere la porta aperta: è un superpotere. È scegliere di rispondere con rispetto anche quando l’algoritmo ci spingerebbe al flame. È fare spazio, dare voce, mettere un attimo in pausa il nostro ego per ascoltare davvero chi abbiamo davanti. La cura è tornare a fare attenzione: a noi, agli altri, alle cose piccole. Curare una pianta, una parola, una relazione.
In un’epoca di scroll compulsivi, prendersi cura è un atto rivoluzionario – e super pop, se ci pensiamo: è scegliere la qualità invece della quantità, la presenza invece del rumore. E poi c’è la speranza. Non quella finta da poster motivazionale, ma quella concreta, che si costruisce ogni giorno: nei progetti che immaginiamo, nei cambiamenti che iniziamo anche se sembrano minuscoli. È la spinta a continuare a credere che si può fare meglio.
Sono sentimenti semplici, ma fortissimi. Da bambini. Perché li vivono naturalmente: sanno essere gentili con un gattino, prendersi cura di una foglia caduta, sperare che domani piova solo se vogliono mettere gli stivali gialli. Forse dobbiamo solo tornare un po’ lì.
Chi sono gli HyperKids e cos’hanno di speciale?
Gli HyperKids sono bambini normalissimi. Ma proprio per questo, specialissimi. Non hanno un’età precisa: possono avere 4 anni o 50. Sono quelle persone che coltivano meraviglia, che non hanno perso (o hanno appena scoperto) il gusto di fare domande strane, di immaginare mondi alternativi, di costruire astronavi con gli scatoloni. Sono esploratori del possibile: si lanciano nei “e se…” senza paura, mischiano giochi e idee, non hanno bisogno di una laurea per parlare di futuro. Lo fanno mentre disegnano, giocano, leggono, sognano.
Sono i futurologi naturali del nostro tempo, quelli che sanno che il domani non è scritto, e che può essere anche super buffo, colorato, tenero o assurdo. Un HyperKid può essere un bimbo di 10 anni che si inventa una nuova regola per il mondo. Ma anche un adulto di 40 che si mette in discussione, che non ha smesso di imparare, che guarda al futuro come un campo da gioco – non come un problema da risolvere. Insomma: gli HyperKids siamo tutti noi, quando ci permettiamo di giocare sul serio.
Cosa faremo online e cosa faremo dal vivo per tutte e tutti gli HyperKids?
Intanto, partiamo da qui: per noi non c’è differenza tra online e offline. Sarà tutto un unico habitat, fluido, ibrido, dove le cose succedono ovunque, ma sempre con lo stesso spirito. Che si tratti di un post su Instagram o di un laboratorio dal vivo, l’energia sarà la stessa: pop, curiosa, aperta.
Racconteremo cose serissime in modo facilissimo. Perché parlare di futuri, emozioni, diritti o immaginari non deve per forza essere complicato. Lo faremo con immagini, giochi, storie, installazioni, libri, esperimenti creativi. Contamineremo discipline: un po’ arte, un po’ scienza, un po’ filosofia da merenda, un po’ cultura pop. Senza steccati, senza etichette. Costruiremo un archivio visivo e narrativo pieno di stimoli, con rubriche leggere ma dense, da scrollare e da salvare. Accadranno cose da toccare, vedere, annusare, costruire insieme. Perché ai futuri ci si arriva anche con le mani sporche di pennarello.
Come scegliamo editori e aziende che vogliono collaborare con HyperKids?
Cerchiamo compagni di viaggio che condividano lo stesso spirito: pop, curioso, visionario ma con i piedi per terra. Niente partnership di facciata o collaborazioni tanto per fare. Chi vuole entrare nel mondo di HyperKids deve avere tre voglie ben chiare:
- Voglia di sperimentare: uscire dai formati standard, provare linguaggi nuovi, mescolare il digitale con il fisico, il serio con il buffo, l’arte con il gioco.
- Voglia di giocare: perché per parlare davvero agli adulti, bisogna saper giocare sul serio come i bambini. Senza paternalismi, senza marketing travestito da intrattenimento.
- Voglia di cambiare: perché i futuri non si osservano, si costruiscono. Cerchiamo partner che vogliano immaginare con noi nuove forme di comunicazione, educazione, relazione.
Se ci sono queste tre cose, allora sì: siamo pronti a creare insieme qualcosa che non c’era ancora.
Penultima domanda: ma insomma, cosa vuol dire crescere?
Crescere per me è un atto di coraggio: significa accettare di sbagliare, di cambiare idea, di reinventarsi. È un viaggio che non finisce mai, un continuo scoprirsi, un mix di nostalgia per la semplicità dell’infanzia e di entusiasmo per le nuove sfide. Crescere è imparare ad ascoltare il proprio io più autentico, a riconoscere le proprie ombre e a trasformarle in forza. È saper costruire relazioni profonde, condividere vulnerabilità e gioire dei piccoli traguardi. In definitiva, crescere è abbracciare il mistero della vita con occhi sempre nuovi, restando curiosi come bambini ma agendo con saggezza da adulti.
In soldoni, se proprio dovessi fare un riassunto spiccio di questa risposta che non vede nulla di nuovo sotto il sole: crescere è imparare una cosa nuova al giorno.
Ultima domanda: un consiglio da sussurrare e uno da gridare in un megafono?
Sussurro: “Allentate lo sguardo a cogliere la meraviglia nelle cose più sciocche.”
Megafono: “Rompete le regole. E le scatole. Fate boo al mondo!”
Benvenuti nei futuri pop e sensibili, possibili
Con questa intervista ad Alice Avallone diamo ufficialmente il benvenuto a HyperKids, il progetto che promette di ribaltare le certezze dei grandi attraverso la saggezza dei piccoli. E diamo il nostro in bocca al lupo ad Alice per il rilancio della nuova identità di BUNS – Dati sensibili, il suo progetto editoriale e studio di ricerca che trasforma numeri e comportamenti digitali in storie umane. “I dati non sono solo cifre da calcolare, ma frammenti di vita che meritano ascolto.” Due progetti, una stessa visione: i futuri si costruiscono guardando il mondo con occhi sempre nuovi.
Segui HyperKids Boo! su Instagram per scoprire tutte le colorate novità!